Per anni abbiamo combattuto i cacciatori che, aggirando i divieti, entravano nel podere uccidendo tutto quanto pulsasse di vita ed energia, inclusa la nostra amata gatta Nina. Nell’ultimo periodo li seguivamo con un megafono ricordando loro le norme cui attenersi. Oggi, fagiani e lepri si avvicinano curiosi, osservandoci mentre siamo intenti alle nostre attività. Ma non è solo la macrofauna a essere incrementata. Una delle cose che ci ha colpito di più in questi anni è stato osservare come nell’agricoltura convenzionale venga impiegato tanto tempo per tagliare l’erba, diserbarla col glifosate, lavorando la terra per portarla a nudo. Noi, invece, procediamo con due soli tagli annuali, che facciamo a file alterne, in modo che gli insetti abbiano sempre la possibilità di bottinare i fiori. Sotto i susini “Goccia d’oro” sono tornate le viole, e la biodiversità delle erbe spontanee continua ad aumentare favorendo la vita di numerosi insetti e microrganismi. Da anni abbiamo abbandonato l’utilizzo di un insetticida molto diffuso, anche nel biologico: il piretro. Gli afidi che arrivano in primavera non distruggono più i germogli perché i loro predatori, che trovano rifugio nelle siepi, nel boschetto e nel canneto del fiume, ne rimettono in equilibrio la popolazione. In questo percorso “a ritroso” abbiamo assistito al ritorno delle lucciole. Nelle buie notti di maggio le loro luci sono uno spettacolo mozzafiato che ci fa tornare bambine.
Durante tutti questi anni abbiamo continuato ad avvertire la presenza del toro Mistero, di quel suo sguardo intenso, contornato da una maschera nera, come se continuasse a osservarci e ad accompagnare le nostre azioni.
La vita di Mistero è coincisa con il tramonto di un tipo di agricoltura che, pur con qualche cambiamento a favore della meccanizzazione, rimaneva fortemente ancorata al passato – se nel 1828 troviamo una trattrice ogni circa 700 ettari, nel 1948 ne troviamo una ogni 284 ettari. Nella zona i bovini erano parte integrante del mondo agricolo, sia come macchina da lavoro sia come risorsa alimentare. Dalla fine della Seconda guerra mondiale tutto è cambiato. La meccanizzazione sempre maggiore dovuta a un accesso ai carburanti più facile ed economico, l’impiego di enormi quantità di fertilizzanti chimici non organici, la selezione delle sementi, l’evoluzione dei trasporti e della conservazione, che permetteva alle merci di viaggiare in celle frigo, hanno rivoluzionato il mondo agricolo e portato a una cesura tra coltivazione e allevamento. Se da un lato si interrompeva un crudele e millenario rapporto di sfruttamento con gli animali, dall’altro se ne apriva un altro ancora più infernale: quello degli allevamenti intensivi per la produzione di carne, latte e uova.
Entrando in contatto col mondo rurale ci siamo imbattut* in una fra le attività più fortemente speciste, antropocentriche e patriarcali. Se gli allevamenti hanno definitivamente abbandonato la dimensione rurale, l’agricoltura non ha affatto abbandonato lo sfruttamento animale. È soprattutto l’agricoltura, che inneggia al ritorno a valori tradizionali e sostenibili, a essere particolarmente legata al reintegro degli animali non umani in un’ottica di sfruttamento, più o meno marcato o visibile. D’altra parte, però, l’agricoltura non è una, sono tante, ognuna con una propria visione.
Quella più diffusa in Occidente, e i cui prodotti troviamo sugli scaffali della grande distribuzione, si chiama “integrata” e si basa sullo sfruttamento incondizionato dei beni comuni: suolo e acqua. Questa agricoltura utilizza molecole inorganiche, cioè derivati di sintesi; in altre parole, è basata sul petrolio. La sua prospettiva non contempla mai la presenza animale. «Il terreno va sterilizzato prima di seminare»; «Il picchio va sterminato perché buca l’irrigazione»; «La nutria va sterminata perché mangia il mais»; «La gazza va uccisa perché mangia la frutta», e così via.
Ci sono poi l’agricoltura biologica e quella biodinamica. L’obiettivo, per entrambe, è ottenere cibo sano attraverso processi naturali volti a mantenere la fertilità del suolo, sviluppare la biodiversità, usare l’energia in modo responsabile. Questa agricoltura utilizza molecole organiche, di derivazione naturale, sia essa vegetale, microbica o animale. Anche se ancora in un’ottica tutt’altro che antispecista, gli animali sono pertanto presenti in azienda in quanto funzionali alla produzione. Nell’agricoltura biodinamica gli animali “servono a chiudere il ciclo”, in quella biologica si usa letame e pollina provenienti da allevamenti biologici non intensivi. «Vedere lavorare un cavallo con un uomo in una vigna, in un orto, in un bosco è un’esperienza che risuona dentro di noi. È come doveva essere, dovrebbe essere e sempre sarà», si può leggere sul sito di un’azienda biodinamica.
Infine c’è l’agricoltura naturale, caratterizzata da una visione marcatamente olistica, tipica delle micro-aziende; anch’essa, però, non antispecista. In questo caso gli animali sono i benvenuti, perché integrano il reddito agricolo, l’alimentazione della famiglia che gestisce l’azienda, concimano direttamente il frutteto e rasano l’erba – anche con il chicken tractor (un pollaio mobile facile da trasportare). Su alcune pagine Facebook è possibile leggere frasi del tipo: «Coltivo le mie piante utilizzando solo cose naturali come penna, letame, compost, sequestrene e sangue di scarto delle macellerie. Il sapore dei miei prodotti è intenso e gustoso come quelli di un tempo»; «Trattori e auto sono causa del cambiamento climatico, noi abbiamo riscoperto l’asino per effettuare le nostre consegne».
Istintivamente, abbiamo reagito a questo mondo maturando una coscienza antispecista e, tuttavia, consci che il cibo non è neutro, sappiamo che anche una scelta di alimentazione a base vegetale può comunque renderci complici, seppur inconsapevoli, dello sfruttamento animale. L’antispecismo si è innestato sulla visione ambientalista che già avevamo e ci ha aiutate ad abbandonare ogni visione gerarchica così come lo sfruttamento degli animali. Nel nostro metodo di coltivazione utilizziamo derivati di origine vegetale come compost, macerati e fermentati, sovescio, farina di roccia.
Tutto questo, accompagnato a una corretta gestione del suolo, ci permette di ottenere ottimi risultati in modo non cruento, nel rispetto delle vite animali.
Sappiamo che in questi sette ettari rappresentiamo la biomassa minore e cerchiamo di condividere quello che produciamo con gli altri coabitanti non umani. Per salvare le ciliegie abbiamo piantato gelsi le cui more offrono agli storni lo stesso apporto calorico e ogni anno una parte dei frutti viene lasciata maturare sugli alberi. Lo sviluppo di questo approccio è stato per noi qualcosa di spontaneo, sorto per livelli di consapevolezza successivi.
Esistono, però, diversi esempi precedenti di applicazione dell’agricoltura organica senza l’uso di derivati di origine animale. Già nel 1953, l’economista Scott Nearing, durante il XIII Congresso Vegetariano Mondiale a Sigtuna, in Svezia, presentava i risultati di un esperimento ventennale di agricoltura senza l’uso di animali. Tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso la famiglia Dalziel O’Brien ha sviluppato il concetto di Veganic Gardening.
Oggi esistono specifiche linee vegane di produzione alimentari, ma non conosciamo esempi di agricoltura dichiaratamente antispecista, consapevole dello sfruttamento animale che può celarsi, per esempio, anche dietro alla produzione di verdura e frutta biologiche.
Quando a ottobre 2020 abbiamo fondato una nuova comunità vi abbiamo fatto confluire la nostra volontà di produrre e distribuire cibo ottenuto senza sfruttamento dell’ambiente, del suolo, dell’acqua e dei viventi umani e non umani. Il riconoscimento agli animali non umani del diritto a vivere pienamente le loro esistenze come autentici soggetti e non come risorse da sfruttare occupa una parte importante del nostro manifesto fondativo. Alle socie e ai soci della comunità non diamo lezioni di antispecismo, piuttosto condividiamo con loro la nostra lettura della realtà e di un’alimentazione che non poggi su alcun tipo di sfruttamento.
Oggi la stalla in cui era detenuto Mistero è diventata uno spazio culturale; gli anelli al muro, ai quali venivano legati i tori e le mucche, sono però rimasti come monito della lotta quotidiana per la liberazione animale. La presenza di Mistero ci accompagna e, ricordandolo nella sua dignità di soggetto, possiamo dare senso compiuto alle nostre azioni e alla nostra vita.
Mistero era il nome di un poderoso toro da monta vissuto in questo podere.
Nato il 23 settembre del 1946, già dal suo secondo anno di vita veniva esibito alle Fiere e alle Esposizioni di bestiame non solo in Emilia Romagna, ma in tutto il nord Italia, vincendo decine di premi. Mistero era considerato un pregevole esemplare di toro della razza romagnola. Destinato alla riproduzione, divenne padre di diverse generazioni di vitelli da carne considerati eccellenti dalla zootecnia dell’epoca. Fino a pochi anni fa ci capitava di parlare con persone che lo ricordavano ancora, dopo mezzo secolo: «Ah! Voi state là dove abitava Mistero!».
Siamo arrivate in questi sette ettari di terra 13 anni fa e da otto, da quando cioè abbiamo fondato la nostra azienda agricola biologica, abbiamo iniziato ad applicare principi di agroecologia e agricoltura organica rigenerativa a vigneto, frutteto e orto. Il nostro primo obiettivo è stato quello di riportare in vita il podere, sottraendolo al degrado causato dalla predatoria agricoltura convenzionale, proteggendolo e trasformandolo in un’isola verde di biodiversità all’interno di un’area in cui l’urbanizzazione continua ad avanzare inarrestabile.
Uno dei primi passi che abbiamo fatto è stato molto controintuitivo perqualsiasi agricoltor* tradizionale: abbiamo estirpato una parte della superficie coltivata – viti, susini, peri e meli – per contornare il podere con quasi 1.000 piante organizzate in siepi e bosco. Oggi l’area lasciata incolta e selvatica si estende per oltre un ettaro. In queste zone non interveniamo mai, nemmeno per sfalciare l’erba. Confiniamo con il fiume Santerno, che dall’Appennino romagnolo si snoda placido fino a confluire nel Reno. Non è raro che i caprioli che lo percorrono facciano una breve deviazione nel frutteto del podere per fare una scorpacciata di germogli e dolci susine. Ci è capitato di vederli dormire all’ombra degli alberi senza curarsi della nostra presenza. Gli animali selvatici si muovono liberi in questi spazi non antropizzati. Qui, oggi, è possibile imbattersi in tassi che si rincorrono tra i noccioli.
Articolo pubblicato sul numero 45 della rivista Liberazioni – Rivista di critica antispecista
http://www.liberazioni.eu/liberazioni-n-45/