Dove sono finite le contadine?

Se c’è un settore ancorato alla cultura patriarcale, plasmato dalle sue radici, è sicuramente l’agricoltura.

Nonostante il progresso tecnologico e il ricambio generazionale, i numeri del 7mo Censimento Generale Agricoltura (2021) ci confermano che le contadine rimangono nell’ombra, nella migliore delle ipotesi ignorate, ma più spesso invisibili.

La realtà dei numeri

Le contadine del 2020

In un decennio, la percentuale di lavoratrici regolarmente assunte è scesa di quasi 7 punti (dal 36,8% al 29,9%). Questo si accompagna ad un forte rallentamento nella crescita del numero di donne alla guida delle aziende agricole.

Nel periodo 2000-2010, la percentuale di imprenditrici era aumentata del 6%, cosa può essere successo nel decennio successivo a far crollare il tasso di crescita fino a portarlo all’1%?

Il censimento rivela che spesso guidano aziende di piccole dimensioni, soprattutto nel sud Italia.

Man mano che la dimensione della SAU (Superficie Agricola Utilizzata) aumenta, la presenza femminile diminuisce significativamente.
Questo significa che in un contesto  di massiccia capitalizzazione finanziaria, quale è quello in cui ci troviamo, la presenza delle donne diventa ancora più marginale.
Mentre le società di persone e di capitali sono raddoppiate, le donne guidano aziende cosi piccole da non poter loro permettere di vivere.  Non solo, spesso queste aziende sono in territori marginali, più abbordabili perché non rivestono alcun interesse economico per l’agricoltura intensiva industriale.
Sono cosi sono costrette ad avviare attività connesse, quali agriturismo, fattoria sociale, fattoria didattica, laboratori di trasformazione.

L’agricoltura non è una professione per giovani donne: le imprenditrici sotto i 29 anni, rappresentano solamente il 20%, la generazione delle loro madri ( 45-59 anni) è arrivata al 22%.

Non è nemmeno una futura professione: le ragazze rappresentano solo un terzo dei/delle diplomati/e di scuola media superiore con indirizzo agrario. Le adolescenti difficilmente scelgono Agraria anche quando provengono da famiglie che possiedono o gestiscono un’azienda agricola, mentre questa sembra essere una scelta quasi naturale per i figli maschi.

Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto

Questo aforisma apparentemente elogiativo, ma in realtà profondamente misogino, concludeva un breve video girato dall’associazione Donne in Campo. Era il 2019 e l’obiettivo di questo girato era illustrare le attività portate avanti dall’associazione stessa.

Donne in Campo è una delle tre associazioni di lavoratrici in ambito agricolo collegate alle rispettive organizzazioni di categoria: CIA, Coldiretti, Confagricoltura.

Le altre due sono Coldiretti Donne Impresa e Confagricoltura Donna.

L’obiettivo comune è favorire lo sviluppo dell’imprenditoria femminile, costruire reti di imprenditrici, organizzare eventi formativi.

Rivestono dunque un ruolo potenzialmente strategico per quante si avvicinano al mondo respingente dell’agricoltura.

Nel video, le contadine erano rappresentate nella loro quotidianità di lavoratrici sul campo e si alternavano alle immagini dei colleghi maschi, seduti invece ai posti di comando, con la loro bella camicia blu.

Questa summa di visioni patriarcali interiorizzate mi ha scosso profondamente. Le donne, per tornare all’aforisma di Oscar Wilde, non hanno bisogno che qualcuno (un uomo) conceda loro occasioni, hanno tutte le capacità e le competenze per prendersele direttamente senza attendere concessioni dall’alto.
Quel calo drastico del numero di contadine è figlio anche di una mancanza di consapevolezza dei ruoli ?

Perché il femminismo non è mai entrato nei casolari, non è salito sui trattori?

C’è molta strada da fare, perché spesso il senso di inadeguatezza e di inferiorità è sedimentato nel nostro profondo. E ci sono molti esempi intorno a noi se solo porgiamo attenzione.
Mi è capitato di sentire la direttrice di zona della CIA chiedere l’uso del maschile, direttore, perché il suffisso femminile la faceva sentire sminuita.

Ancora, ero presente quando la responsabile di un grosso progetto, seduta al tavolo dei ‘relatori’ è stata presentata alla platea col semplice nome di battesimo, mentre per i colleghi uomini oltre al nome e cognome è stato specificato anche il ruolo.
Il bellissimo discorso della Presidentessa di Donne in Campo dello scorso ottobre 2023 tradisce le donne laddove afferma  ‘Noi agricoltori, dedichiamo la vita a questo lavoro e doniamo il nostro tempo per produrre alimenti sani, per custodire la storia, per diffondere la cultura e per camminare verso l’innovazione!  Ma troppe aziende oggi che producono eccellenze sono costrette a chiudere e molto spesso queste sono aziende femminili!’

E non sono aspetti minori e trascurabili: la lingua infatti è ‘‘un’infrastruttura culturale che riproduce i rapporti di potere’’ (M. Murgia, Stai zitta e altre 9 frasi che non vogliamo più sentire).

Il gender gap

Il gender gap è evidente non solo nelle aziende agricole, ma anche lungo la filiera ortofrutticola, gestita principalmente da uomini, nonostante il 70% di chi vi lavora sia composto da donne.

Ancora una volta i numeri ci vengono in soccorso:

  • il consiglio di amministrazione della cooperativa romagnola Agrintesa, ‘leader italiano – da notare l’uso di un aggettivo declinato al maschile non concordante col sostantivo di riferimento –  dell’ortofrutta e del vino’, con un giro d’affari che raggiunge i 300 milioni di euro, è composto da 29 membri, tutti uomini.
  • Il consiglio di amministrazione di Terre Cevico, cantina vinicola, è composto da 15 individui, di cui 13 uomini
  • il CdA di Terremerse, cooperativa multifiliera dell’agroalimentare, comprende 17 consiglieri. Tra questi vi è una sola contadina.

A livello politico le cose ovviamente non cambiano e la presenza delle donne è dovuta unicamente all’introduzione delle quota rosa.

Di nuovo i numeri ci sostengono in questa ‘non percezione’ della nostra invisibilità:

Tutti questi dati testimoniano l’estrema riluttanza di chi detiene il potere a condividerlo con noi donne. Sia nella coltivazione e nella gestione delle aziende agricole, sia nella distribuzione del cibo, c’è un’evidente disparità di genere.

Il modello di agricoltura industriale intensiva portato avanti da questa politica tutta al maschile è escludente.

La conseguenza di tutto questo è che la visione dell’agricoltura elaborata dalle contadine e da tutte le donne che lavorano nel comparto ortofrutta rimane inespressa e inascoltata. Eppure esiste, ne è un esempio il fatto che le imprenditrici scelgono quasi sempre di applicare il modello biologico.

Questo enorme cambiamento che la società rurale deve attraversare deve partire dalle donne stesse.

Abbiamo bisogno che la nostra voce non rieccheggi nel vuoto; abbiamo bisogno di raccontare la nostra visione.

Abbiamo bisogno che il movimento femminista ci affianchi e ci accompagni in questa lotta.
E occorre farlo subito.