Se questo è un fiume

Michele di Pascale, Sindaco di Ravenna

      Non esistono dati precisi su quanti animali rinchiusi negli allevamen­ti, sia intensivi sia domestici, siano morti a causa dell’alluvione; solo nel nostro territorio, cioè nella Bassa Romagna che conta nove Comuni, si parla di svariate migliaia di suini annegati o morti ibernati per essere rimasti giorni nell’acqua gelida e di 60.000 galline annegate imprigio­nate nelle gabbie. Abbiamo visto immagini di maiali galleggiare nelle campagne allagate e foto di pesci nuotare nelle piazze del centro della nostra città. Non ci sono numeri certi di quanti selvatici abbiano perso la vita, dai più piccoli invertebrati, come i lombrichi, a lepri, fagiani, volpi, nutrie e così via. Il colpo subìto è talmente duro da far chiedere ad alcuni CRAS del territorio di interrompere l’attività venatoria almeno per un paio d’anni.

      Un inferno che si aggiunge alla non meno infernale quotidianità per gli animali destinati al consumo umano che vivono in Emilia-Romagna. Questa è infatti una delle regioni con il maggior numero di allevamenti intensivi: oltre venti milioni di avicoli e più di un milione di suini ven­gono allevati ogni mese. Secondo il MIPAAF (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali) la nostra regione macella ogni gior­no 11.000 suini, 1,5 milioni di polli, 100.000 tacchini e 50.000 anatre. Senza contare gli allevamenti domestici per autoconsumo presenti in ogni famiglia contadina.

      L’idea di fuggire abbandonando le nostre compagne e i nostri com­pagni –  il montone, la pecorella giunta da pochi mesi, le anatre, l’oca, le coniglie e i gatti che qui trovano cibo e riparo – non ci sfiorava nem­meno e così le ore passavano in una sospensione estenuante. Da sole, senza camion ma con un semplice doblò, avevamo possibilità d’azione molto limitate. Inoltre le strade erano  bloccate e  nemmeno le amiche e gli amici potevano raggiungerci per dare una mano. Per il raccolto, l’orto e il vigneto, come per i trattori, ci eravamo già rassegnate alla possibilità di perdere tutto, salvando solo le sementi e quel poco che si poteva trasportare al piano superiore.

I dubbi ci travolgevano. Cercavamo informazioni dai contadini che vivevano nella nostra zona da sempre, ma nessuno di loro aveva già vis­suto un’esperienza di questa portata. A che altezza arriverà l’acqua nel caso in cui il fiume esondasse? Si tratterà di pochi centimetri o arriverà alla cintola? In quanto tempo percorrerà i 250 metri che separano le nostre case dal fiume? Riusciremo a caricare Yumma, che pesa 110 kg, sul doblò? E per andare dove? E se riuscissimo a spostarlo e poi non succedesse nulla, come supererà lo stress, lui che è così sensibile a ogni piccolo cambiamento? Le anatre riusciranno a cavarsela o verranno tra­scinate via dall’acqua? E i gatti avranno il tempo necessario per salire sugli alberi?

      Silvia non riusciva a frenare le lacrime per la disperazione di una responsabilità troppo pesante. Dopo ore di travaglio la mente spossata si è aggrappata al passato, al «tanto non è mai successo», «qualcosa interverrà e tutto tornerà a posto». E così abbiamo deciso di aspettare, con la sensazione di giocare a poker con la morte. Mettiamo a dormire le nostre compagne e compagni e iniziamo la veglia.

      Alle due del mattino il Santerno rompe più a valle, a pochi km da noi. Poi va via la luce, rimaniamo a lume di candela e inizia la vera paura. Alle tre arrivano informazioni che il fiume sta esondando in più punti. Alle 3.45 il fiume rompe, di fronte a noi, ma sull’argine opposto, apren­do uno squarcio di decine di metri. Piangiamo. È un pianto liberatorio questa volta, che si accompagna a un senso di colpa: la nostra salvezza costerà altre vite. La massa d’acqua che travolge il paese, infatti, è così violenta da spazzare via ogni cosa che incontra sul suo percorso: ab­ batte muri, trascina via automobili, stacca l’asfalto dalle strade, piega pali di ferro, sommerge le case, uccide tre persone e un numero che mai conosceremo di individui non umani. Il fiume ha risparmiato Terrestra lasciandola ancora più isolata.

      Improvvisamente, il ponte di 70 metri che fino a quel momento ci aveva unite al paese, ora ci separava da desolazione, limo, acqua putri­ da su cui galleggiavano i relitti del paese distrutto, le macerie, i corpi gonfi degli animali annegati, dagli elicotteri che, uno dopo l’altro, re­cuperavano le persone dai terrazzi e dai tetti, sirene e allarmi che suo­navano  in un silenzio liquido, colonne di mezzi anfibi che cercavano di raggiungere chi non era fuggito in tempo. Sbigottimento e senso di morte creavano un contrasto doloroso con la vita e il verde rimasti inte­gri in tutta la loro felicità a Terrestra, tanto da farci sentire quel senso di colpa definito in psicologia come “sindrome del sopravvissuto”, tipico, per esempio, di tante persone scampate ali’Olocausto o ad altri eventi tragici.

Quel 16 maggio la pioggia sembrava non smettere più, soprattutto sull’Appennino, là dove nascono molti dei corsi d’acqua che attraver­sano la Romagna e la racchiudono come in una ragnatela.
Aspettavamo l’ondata di piena che sarebbe arrivata nel mezzo della notte; il livello altamente critico raggiunto solo due settimane prima non lasciava spa­zio a ottimismo, ormai ci si concentrava non sul se, ma sul dove avrebbe rotto.

      Le autorità avevano fatto scattare l’allerta rossa e il piano di emer­genza: dal semplice divieto di sostare sull’argine del fiume si era passati all’evacuazione immediata delle abitazioni situate di fronte all’argine e di quelle più distanti che disponevano unicamente del piano terra.
Il cellulare squillava a intervalli regolari e una voce metallica invitava a trasferirsi  ai piani superiori o ad abbandonare l’abitazione per recarsi al centro accoglienza. Un’auto della Polizia Municipale percorreva le strade principali ripetendo lo stesso ordine e la mente ritornava a tre anni prima, quando le auto della polizia intimavano alle persone di ri­manere chiuse in casa a causa della pandemia da Covid-19.

      La tensione saliva e così  la paura nei confronti di un nemico che non conoscevamo ancora. Decidiamo quindi di chiamare il Comune di Sant’Agata sul Santerno per chiedere qual è la probabilità che l’acqua raggiunga la nostra area e se sono previsti aiuti per il trasporto di quante/i vivono con noi a Terrestra, provenienti da condizioni di sfruttamento:

«Ci sono animali che vivono con noi, non possiamo abbandonarli e non abbiamo la possibilità di spostarli, aiutateci!… Ci dispiace, ma se non si tratta di animali da allevamento non possiamo intervenire, i vigili del fuoco non hanno mezzi adatti e poi sono impegnati in altre operazioni».

Il "nostro" fiume Santerno

      Terrestra si trova in uno dei territori italiani di origine alluvionale con il più alto rischio idrogeologico. Il fiume Santerno la costeggia  lungo  tutto il confine ovest, ma le sue acque sono sospese e racchiuse all’interno di un argine talmente alto da creare una sorta di muro di confine. Per questo motivo, pur avendolo così vicino, non l’abbiamo mai potuto vivere. Negli ultimi due secoli le sue anse profonde sono state deviate e il suo percorso sinuoso rettificato. li fiume è diventato un canale, a volte uno scolo, co­ stretto da ripidi argini senza più rive, così da riservare il massimo spazio all’agricoltura e all’urbanizzazione. Un fiume, invece, è vita che scorre.

      Il Santerno di quando Silvia era piccola era acqua, alveo, aerale, can­ ne palustri, pioppi bianchi, aceri campestri, olmi, caprioli, fagiani, lepri, volpi, cavedani, barbi, trote, gamberi, libellule, zanzare, rane, rospi. Fino agli anni Cinquanta le persone andavano a fare i picnic sulle sue rive, i più piccoli facevano il bagno nelle pozze naturali. Ancora negli anni Settanta, nonostante le opere di innalzamento degli argini prose­guissero,  il  letto del fiume era sufficientemente ampio da  permettere a noi bambine di impastare il limo con le canne palustri e costruire piccole capanne. C’era anche chi vi coltivava piante di Cannabis, ben protette dallo sguardo della legge.

      Il processo di trasformazione del territorio romagnolo ha una storia vecchia di secoli: inizia nel XVI secolo con le opere di bonifica di am­pie zone del territorio e prosegue con la rettifica dei fiumi, la canaliz­zazione di tutti i corsi di acqua e l’impermeabilizzazione del suolo per l’agricoltura e l’allevamento, fino a portare la provincia di Ravenna che, ricordiamo, ha contato i maggiori danni da alluvione, a raggiungere nel 2020 un consumo di suolo secondo solo a quello di Roma. Tra gli anni Novanta e la metà del primo decennio Duemila alla cementificazione si sono aggiunti i lavori di costruzione della TAV sul Mugello, ossia della linea dell’alta velocità per collegare Bologna a Firenze. Nella più totale indifferenza nei confronti di ogni studio sull’impatto ambientale, si è scavato seccando ben 37 sorgenti e 57 km di fiumi. Quel momento ha rappresentato la fine per gran parte della vita acquatica in ampie zone appenniniche e anche la qualità dell’acqua è notevolmente peggiorata.

      Oggi, i «corsi d’acqua si inseriscono in un contesto che non ha più nulla di naturale, ma che vede l’agricoltura intensiva protagonista assoluta, con tutte le conseguenze negative del caso: canali e fiumi utilizzati come mere tubature, spazi naturali completamente cancellati o drasticamente ridotti, coltivazioni spinte fino al bordo di canali e arginature, degrado estremo della qualità delle acque». Grazie a una metodica operazione predatoria nei confronti dei beni comuni e del selvatico, grazie allo sfruttamento e al dominio degli spazi urbani e di quelli rurali, grazie a un’urbanizzazione che continua ancora oggi, nonostante i proclami di «zero consumo di suolo», grazie a un’agricoltura che ha distrutto il paesaggio, banalizzan­done la complessità e desertificandone il suolo, grazie allo sfruttamento dei corpi femminili per ottenere latte e formaggi e agli allevamenti di polli (1), anatre, maiali, l’operosa Romagna ha raggiunto il trentesimo posto per qualità della vita in Italia nel 2022. L’alluvione rappresenta l’ester­nalità negativa di tutto questo, è il prezzo da pagare non solo in termini di vite animali, ma anche in termini economici e paesaggistici.

      In questa rincorsa spasmodica al capitale e a un’idea di progresso ob­soleta e predatoria il territorio è considerato qualcosa di inerte, di cui si può disporre secondo concetti meccanicistici ottocenteschi. Allo stesso modo si è intervenuti sulla biodiversità, sia animale sia vegetale. È stato volutamente ignorato l’approccio alla complessità profonda di un fiume, che è fatta di relazioni tra minerali e vegetazione, tra vegetazione e pesci, anfibi, piccoli mammiferi e uccelli, tra microclima e nicchie ecologiche.

La colpa

L’alluvione ha portato ciascuna/o di noi ad affrontare innanzitutto un pesante trauma soggettivo: c’è chi ha subìto lutti personali, chi ha perso tutti i propri ricordi, chi ha perso il proprio futuro, sia abitativo sia la­vorativo. Si sono così innescate dinamiche collettive di individuazione delle colpe. L’ideale antropocentrico e scientista dell’umano che domi­ na la natura si è sgretolato sotto gli occhi dei comuni cittadini e dell’am­ministrazione del territorio. È una responsabilità, questa, che il mondo politico non può assumersi, soprattutto a qualche mese dalle elezioni comunali e in un momento in cui la destra al governo sta guadagnando sempre più consenso. Si rischia pertanto che la cittadinanza individui nella malagestione del territorio la causa del danno subìto. È così che il sindaco di Ravenna ha prontamente trovato un colpevole privo di paro­la: «La natura spontanea e le nutrie».

      Ancora una volta il selvatico irrompe nello schema precostituito, di­ venta la causa dei danni e permette alla comunità di ricompattarsi, unita nell’individuazione di un male che si può combattere con l’arma più facile e banale: l’eradicazione. La narrazione, semplice e mistificatoria, secondo cui la vegetazione spontanea nell’alveo del fiume e la presenza di tane di nutrie e istrici siano la causa del!’indebolimento di argini e di fontanazzi e, quindi, delle rotture è stata rilanciata al punto da diventare dominante ed esclusiva. Gli alberi sono stati accusati di aver rallentato – contemporaneamente – la corrente di 23 (!) corsi d’acqua fino a fer­marla, le nutrie e gli istrici sono diventati colpevoli di avere indebolito le alte scarpate dei fiumi sospesi e dei canali irrigui. Al di là del fatto che non sono state mai documentate esondazioni e rotture di argini a causa delle nutrie, queste ultime – ci racconta Maurizio Donadon (2), geologo e co-curatore di un articolato studio sulla riqualificazione ambientale del­ la Pianura Padana (3) – sono spinte a scavare in quanto è stato soppresso il loro habitat naturale, che era l’ampio alveo ricco di canne. La lunghezza delle loro tane (al massimo un paio di metri) e la posizione geometrica rispetto al livello normale del fiume rende risibile l’ipotesi che queste possano realmente innescare fenomeni erosivi o di collasso, viste le di­mensioni dei corpi arginali. Sarebbe sufficiente, secondo Donadon, ri­durre la pendenza delle scarpate, che generalmente si aggira sui 45 gra­di, per far si che i castorini non costruiscano più le loro tane sotterranee, accontentandosi dei nascondigli offerti dai canneti e rimanendo in tal modo anche più esposti alla predazione da  parte di volpi, lupi, ardeidi e rapaci. Mentre l’eradicazione degli alberi è immediatamente visibile, consentendo un generale plauso e garantendo un senso di dominio e sicurezza, quella delle nutrie, prosegue Donadon, fornisce una facile scusa a cacciatori e proprietari di terreni per poter girare armati (perfino di notte) al di fuori del periodo venatorio, oltretutto consentendo l’uso di armi e strumenti considerati tipicamente “da bracconaggio”, come gabbie e fucili calibro 12 (vietati per ogni altra attività).

Alluvioni come quella che ha colpito il nostro fragile territorio hanno cause fisiche complesse, amplificate da interrelazioni poco evidenti che si possono cogliere solo a distanza di mesi dalla tragedia. Potrebbe es­sere fatto molto per evitare che i prossimi eventi meteorologici estremi non creino danni di questa portata e si tratta di un’attività che va nella direzione opposta a quella che questa regione mette in atto da secoli: si tratta di muoversi verso una rinaturalizzazione. Arretrare gli argini dai corsi d’acqua, riconquistare terreni al demanio pubblico sottraendoli all’agricoltura intensiva, all’urbanizzazione e all’industria. Ripristinare aree di laminazione naturale delle piene, eliminare le coperture di ce­ mento dai corsi d’acqua. Occorre «ristabilire la funzionalità dei sistemi fluviali, utilizzando il più possibile soluzioni basate sulla natura, così come già previsto dagli indirizzi comunitari e anche dal nostro Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici»

      Sappiamo già che tutto questo non verrà fatto. Non perché siamo pes­simiste, ma perché assistiamo in prima fila alla ricostruzione del fiume. Continua la belligeranza nei confronti del vivente, si infilano palancole, si pressano grandi massi sugli argini. Il fiume oggi è ancora più sospeso rispetto al territorio circostante e ancora più stretto nel suo cammino rettificato, che alla prossima occasione gli consentirà d’acquistare ve­locità, capacità erosiva e distruttiva. Non ci chiediamo se accadrà di nuovo, ci chiediamo dove e quando. Altre soluzioni sarebbero più eco­nomiche nel medio periodo, avrebbero ricadute positive sul clima, sulla geografia del paesaggio, sulla vita, ma trasformare il sistema produttivo che è alla base di questo tipo di organizzazione degli spazi naturali non appare più possibile.

Siamo su un treno in corsa e ogni cambiamento di paradigma porte­rebbe alla rinuncia di quei privilegi che la nostra società capitalista ha conquistato attraverso la predazione nei confronti del vivente.

L'auspicio

Siamo state testimoni dirette di un disastro epocale, prodromico di quanto ci aspetta nell’imminente futuro. L’alluvione è avvenuta dopo un lungo periodo siccitoso ed è stata seguita da una vera e propria trom­ba d’aria che ha colpito molti dei luoghi già prostrati. Non si contano i morti tra uccelli, mammiferi, insetti e rettili che hanno perso la vita negli allevamenti, nei piccoli santuari, nei boschi, nelle case, nel solo mese di maggio. L’acqua, nel suo percorso, ha trascinato con sé scarti industriali, feci, sangue, carne putrefatta degli allevamenti, carburanti delle stazioni di rifornimento, pesticidi ed erbicidi delle aziende agrico­le, avvelenando l’intero territorio sommerso.

      Per questi motivi riteniamo che l’attivismo a favore della liberazione animale non possa più trascurare il problema ambientale, e viceversa. Protezione della biodiversità, soggetta a un attacco senza precedenti da parte del mondo politico, industriale e venatorio e lotta al cambiamento climatico sono tematiche che devono accompagnare il dibattito intorno allo specismo, aggiungendosi a quelle già presenti sulle oppressioni e sulla distruzione della struttura gerarchica su cui si fondano le distinzio­ni sociali, culturali ed economiche.

(1) In Romagna si concentra 1’80% dei capi avicoli allevati in regione, pari al 13% del totale nazionale (fonte: ARAER -Associazione Regionale Allevatori dell’Emilia-Romagna)

(2) M. Donadon, videoconferenza a cura di A4, Collettivo Antispecista, 9 Maggio 2023

(3) Faccini, La riqualificazione ambientale, cii.

 

Articolo pubblicato sul numero 54 della rivista Liberazioni – Rivista di critica antispecista
http://www.liberazioni.eu/liberazioni-n-54/